La prima volta che sono arrivato a Shalom Home, nel giugno del 2024, non ero minimamente preparato a ciò che avrei vissuto. Credevo di andare come volontario per “dare una mano”, ma appena il cancello si è aperto ho capito che quel viaggio avrebbe cambiato qualcosa dentro di me.
Davanti a noi, centinaia di bambini correvano festosi, spargendo petali di fiori, con le mani tese e gli occhi pieni di una gioia così intensa da togliere il fiato. Non ci conoscevano, non sapevano i nostri nomi, eppure ci accoglievano come si accoglie chi torna a casa dopo tanto tempo. C’era un’energia travolgente, un calore umano che difficilmente si può spiegare a parole: devi sentirlo sulla pelle per capire cosa significa essere “accolti” in quel modo.
Da quel momento in poi, ogni giorno è stato una scoperta.
Una scoperta nelle risate improvvise dei bambini, nei loro giochi ingenui, nel modo in cui ti prendevano la mano con naturalezza, come se fosse la cosa più semplice del mondo.
Una scoperta nei loro racconti, nei loro sguardi profondi, nella forza nascosta dietro a ogni sorriso.
Ogni mattina portava con sé una nuova emozione: il suono delle loro voci all’alba, la gioia con cui ti venivano incontro appena mettevi piede nel cortile, la spontaneità con cui ti includevano nella loro vita.
Ogni giorno imparavo qualcosa: sulla loro resilienza, sul valore della condivisione, sulla capacità di essere felici con pochissimo. Ma imparavo anche qualcosa su di me, sul mio modo di guardare il mondo, su quanto spesso diamo per scontato ciò che davvero conta.
E più il tempo passava, più sentivo che quel luogo mi stava trasformando. Non era solo
un’esperienza: era un incontro continuo, un susseguirsi di piccole rivelazioni che mi lasciavano ogni sera più ricco di quando ero arrivato.
E quando è arrivato il momento di salutarsi, l’ultimo giorno, l’emozione è stata quasi travolgente.
Quei bambini che nei giorni precedenti mi avevano riempito il cuore ora mi stringevano forte, alcuni con le lacrime agli occhi. E lì ho capito che non si trattava solo di un addio, ma di un legame che sarebbe rimasto con me per sempre.
Quando sono tornato nel giugno 2025, portavo con me una consapevolezza diversa. Conoscevo già il ritmo di quel microcosmo straordinario, ma questa volta riuscivo a vederne anche la fragilità, i bisogni profondi.
La sfida più grande, lì dentro, è imparare ad aiutare senza creare preferenze, senza lasciarti
travolgere dalle simpatie inevitabili che nascono quando stai a contatto con bambini così affettuosi.
Bisogna mantenere l’equilibrio delicato che regna, un equilibrio costruito nel tempo, sorretto da regole non scritte ma preziosissime. Ogni bambino deve sentirsi allo stesso livello degli altri: amato, importante, parte della stessa famiglia. Non è facile. Richiede attenzione, sensibilità, un continuo ricordarsi perché sei lì.
E mentre cercavo di muovermi con questo rispetto, osservavo la figura di Padre Francis, il vero punto cardine di tutto. A volte lo vedevi comparire all’improvviso, con il suo sorriso calmo, il passo veloce, la voce che trasmette sicurezza. Poi spariva di nuovo, richiamato dai suoi doveri di sacerdote, oppure da qualche urgenza della comunità. Sembrava non fermarsi mai. Ma anche quando non era fisicamente presente, si avvertiva la sua guida: era come un faro silenzioso che dirige ogni gesto, ogni equilibrio, ogni speranza di quel luogo.
Durante quel viaggio ho visitato anche la scuola pubblica. Strutture fatiscenti, materiali ridotti all’essenziale, enormi difficoltà in ogni minima cosa. Lì ho capito davvero quanto l’accesso all’istruzione sia una battaglia quotidiana, e quanto anche un piccolo aiuto possa diventare un pilastro importantissimo.
Nel novembre del 2025 sono tornato da solo. Ho viaggiato con mio figlio Matteo fino a Shalom, poi da lì è partito da solo verso Wamba, diretto al Catholic Hospital. Ricordo ancora il momento in cui è salito sul pick-up, con lo zaino sulle spalle: ero orgoglioso, profondamente orgoglioso di lui.
Vederlo fare quella scelta con maturità e determinazione è stato un regalo inaspettato, quasi una conferma del valore di tutto ciò che avevamo condiviso.
Rimasto a Shalom, ho potuto vivere la comunità con un’attenzione nuova. Ho trascorso del tempo con i ragazzi più grandi, quelli che erano entrati bambini e che ora tornavano durante le vacanze per aiutare chi aveva bisogno come un tempo loro. Ragazzi all’università, giovani lavoratori, insegnanti cresciuti proprio lì, tra quei sorrisi e quei dormitori.
Le loro storie sono la prova vivente che lo Shalom non è solo un luogo: è un punto di partenza, una possibilità reale di un futuro diverso. E ogni volta che vedevo uno di loro prendere sulle spalle un bambino piccolo, o insegnargli una canzone, o aiutarlo a fare i compiti, mi si stringeva il cuore.
Perché capivo che non eravamo lì solo per dare, eravamo lì anche, e forse soprattutto, per ricevere. Le difficoltà restano enormi. Le richieste di accoglienza aumentano, i fondi non bastano mai, la comunità continua a lottare tra mille incertezze. Ma ora so che, ampliando la rete di persone che
conoscono questa realtà, che ne comprendono il valore e decidono di sostenerla, lo Shalom può
continuare a fiorire. Può continuare ad accogliere nuovi bambini, a dare speranza, a costruire destini.
E ogni volta che ripenso ai loro sorrisi, ai loro abbracci, alla forza incredibile che sprigionano, capisco ancora una volta che questo viaggio, più di tutto, ha arricchito me.
Mi ha insegnato a guardare il mondo con occhi nuovi. Mi ha insegnato che la speranza non nasce dai grandi gesti, ma dai piccoli atti quotidiani.
E che, a volte, è proprio in un luogo così lontano da casa che impari davvero cosa significhi sentirti… a casa.