Matteo
Ottobre 2025.
Sono un medico neolaureato, lo zaino ancora pieno di entusiasmo e di domande. Faccio le valigie, saluto casa e parto: destinazione Kenya.
Il viaggio è lungo, quasi sospeso. Atterro a Nairobi e ad aspettarmi c’è una vecchia Mitsubishi del ’93, una di quelle che in Italia custodiresti come un cimelio e che invece lì è ancora una guerriera della strada. Dovrebbe portarmi a Shalom Home, e le sei ore di strada che mi separano da quella meta, in teoria, dovrebbero annoiarmi.
In teoria.
In pratica, in Kenya è impossibile annoiarsi. Guardi fuori dal finestrino e capisci subito che quel Paese ti sta già parlando. Ti sussurra che quello che vivrai nelle settimane successive sarà più grande di te. È come se l’Africa, attraverso la polvere rossa, i colori, i volti, ti preparasse senza dire una parola.
Arrivo a Shalom con mio padre. Ma solo per una notte: il giorno dopo dovrò partire per Wamba, nella contea Samburu, per un volontariato medico. La mia testa è già lì, proiettata nel lavoro, nella missione, nei casi clinici che potrei incontrare.
Poi però arrivo veramente a Shalom.
E tutto cambia.
Come fai a non pensarci, quando dei bambini che non ti hanno mai visto corrono verso di te con dei fiori in mano, cantano, ti stringono, ti sorridono… e non sanno neanche chi sei?
È uno shock dolcissimo, una carezza che ti disarma.
Va bene, penso, devo partire, questa è solo una tappa.
E invece, nel giro di mezza giornata, Shalom ha già piantato un seme. Lo senti. Non sai ancora spiegarti perché, ma capisci che tornerai. Prima del previsto.
Dieci giorni dopo, infatti, eccomi di nuovo lì.
E la prima cosa che succede è questa: i bambini si ricordano tutti di me.
Tutti.
Mi si stringe lo stomaco, mi si apre il cuore. Non so quale dei due sentimenti vinca, ma so che non dimenticherò mai quel momento.
Durante i giorni a Shalom faccio quello che so fare: curo chi cade e si sbuccia un ginocchio, valuto chi ha bisogno dell’ospedale, cerco di insegnare qualche nozione di igiene. Roba semplice, pratica.
Eppure… la verità è che chi impara di più sono io.
Sono io a imparare come si fa a sorridere anche senza genitori.
Sono io a capire cosa significa prendersi cura dei più piccoli… a sette anni.
Sì, sette.
Sette anni che lì equivalgono a sette vite nostre.
Imparo cosa vuol dire dare valore alla vita, e ad ogni suo dettaglio.
Vedo bambini di sei anni lavare i propri vestiti da soli.
E penso: “Chissà quanto soffrono, quanto saranno tristi.”
Errore.
Hanno metà dei mezzi, ma il doppio del sorriso. Trasformano ogni fatica in un gioco. Una gara. Un’avventura.
E poi c’è Shalom, che grazie a padre Francis è un’isola nel mezzo di un mare agitato. Un posto che salva vite, che accoglie, che protegge. Ma appena metti il naso fuori da quell’isola, vedi il mare: gente che annaspa, che lotta ogni giorno per un pezzo di pane, per un’occasione minima per respirare un domani.
Per raccontare questa esperienza, mi affido a un’analogia che porto dentro da sempre perché è dolorosamente vera.
Arrivi a Shalom con le valigie piene: oggetti, medicine, donazioni, tutto quello che pensi possa essere utile.
E pian piano quelle valigie si svuotano.
Poi arriva il momento di tornare.
Le valigie sono vuote, almeno in apparenza.
Eppure… pesano più di prima.
Perché dentro, senza che tu te ne accorga, ci sono finiti gli sguardi, le risate, le cicatrici, le mani piccole che ti cercavano, le lezioni di vita ricevute da chi ha un decimo di ciò che hai tu, ma una forza che vale il mondo intero.
Le valigie sono vuote.
Ma tu, per la prima volta, sei pieno.
Matteo